Me ne sto comoda sulla sdraio sul mio piccolo poggiolo al primo piano, al livello della cucina. Sono quasi le sette di sera, sono rientrata da poco dal negozio e mi sto gustando una buona tazza di tè, che si chiama “primavera”. Mi sembra di buon auspicio visto che marzo si sta avvicinando. Davanti a me, in lontananza, il sole è sceso dietro le montagne e la sua luce crepuscolare illumina alcune nuvole rosa sparse nel cielo. Fra poco sarà buio.
Mi lascio avvolgere dai ricordi, non me lo concedo da anni, e subito sorrido ripensando a me e Diego e ai nostri primi momenti assieme.
Ci rivedemmo il mercoledì successivo alla mostra, al corso di scrittura.
Io arrivai in anticipo, com'era mia abitudine, lui invece giunse in ritardo ma venne a sedersi nel banco di fianco al mio, non l'aveva mai fatto. Ci regalammo un sorriso complice.
Non ascoltai la lezione. La sua presenza così vicina mi metteva in fibrillazione e le mie sinapsi si rifiutavano di collaborare, a parlare erano le emozioni e il mio corpo, che percepiva il calore del suo anche se non ci sfioravamo. Mi era già successo a lezione di distrarmi per qualche momento osservandolo, ma ora, che era palese che fra noi potesse succedere qualcosa, ero risucchiata dalle sue vibrazioni. Mi sembrava proprio che cambiasse l'aria nella stanza.
Avrei scoperto che gli facevo lo stesso effetto. Anche lui non memorizzò nulla di quella lezione, tranne il titolo: “Come rendere realistico un personaggio”. Mi raccontò che il mio profumo lo raggiungeva e lo stordiva, impedendogli di ascoltare o vedere ciò che gli stava intorno per lasciarlo vagare con la fantasia in realtà parallele.
Furono due ore di piacevole tortura.
Una parte di me attendeva la fine della lezione per poter trascorrere il resto della serata in sua compagnia, l'altra temeva quel momento per paura di aver travisato tutto. Scribacchiavo sul quaderno degli appunti fingendo interesse per il discorso della professoressa, in realtà il mio dibattito interiore aveva la meglio. Permettevo ai battiti del mio cuore di rimbombarmi anche nella testa, purché il tempo scorresse veloce.
Verso le 22.30 finalmente la lezione giunse a conclusione.
Chiusi il block notes e afferrai la borsa alzandomi dal mio posto, Diego fece altrettanto uscendo dal banco verso di me. Ci ritrovammo di fronte, schiacciati fra i banchi, a una distanza che avrebbe messo in imbarazzo due sconosciuti. Ci fissammo negli occhi luminosi.
“Ti va di andare a bere qualcosa?” mi chiese.
“Certamente” risposi.
Scivolai su di lui per guadagnare uno spazio di manovra e per ricordarmi di respirare, sfiorarlo mi mandava scariche un po' dovunque.
Mentre lo precedevo, scendendo le scale del palazzo dell'università assieme agli altri corsisti, percepivo la sua attenzione su di me. Non resistetti alla tentazione e mi voltai verso di lui, il suo sguardo mi fece avvampare le guance.
Raggiungemmo il bar più vicino, sedendoci ai tavolini all'aperto sul ciotolato del centro storico. Mi augurai non facesse commenti sulla lezione.
“Bella lezione” iniziò.
“Già...” commentai in imbarazzo.
Arrivò il barista a prendere le ordinazioni, così ne approfittai per sviare la domanda.
“Tu scrivi?” gli domandai appena fummo da soli.
“In che senso?” mi chiese con espressione accigliata.
“Se scrivi storie, pezzi, articoli su qualche giornale, cose così.”
“Scrivo tanto per me stesso, di tutto ciò che mi colpisce. Ho sempre in borsa un taccuino e una penna per mettere su carta situazioni, commenti, immagini. Quando mi si accende un idea me l'annoto o scrivo, dipende dal tempo che ho. In seguito amplio il discorso, mi documento e lo trasformo in un articolo.” E qui mimò con le dita delle virgolette. “Sono pezzi brevi, relativamente brevi. Alcuni però escono sulla gazzetta di un mio amico, poche copie distribuite gratuitamente per la città. E' un buon esercizio per allenarmi ad avere un pubblico, mi obbliga a correggere il lessico e le espressioni e soprattutto a non scrivere sciocchezze.”
Risi, non dava certo l'idea di uno che scrivesse sciocchezze.
“E tu? Scrivi anche tu? Scrivi di filosofia?”
Mi sentii in imbarazzo, non ne avevo mai parlato con nessuno. Bevvi un sorso della mia birra, che era appena arrivata, temporeggiando.
“Ci provo,” ammisi, “ma non scrivo di filosofia, troppo complicato. A volte mi piace farmi prendere dalla fantasia e creo personaggi e situazioni e li trasformo in una storia. Però sono ispirazioni momentanee, staccate le une dalle altre.”
“E' pur sempre un inizio,” commentò, “magari dopo questo corso proverai con una storia più lunga.”
Proseguimmo nel raccontarci dei nostri esperimenti creativi, delle difficoltà e degli errori ortografici, che a volte sembravano inevitabili. Il tempo trascorse leggero, mentre il fresco della sera ci ritemprava dell'afa della giornata. Dopo la seconda birra mi chiese se poteva accompagnarmi fino a casa.
“Volentieri,” gli risposi con un gran sorriso, “ma questa volta pago io!” e mi alzai subito dalla sedia per precederlo.
Pur ridendo, mi lasciò fare.
Tornai di fronte a lui al tavolino. Si alzò, fissandomi intensamente negli occhi. Ancora non me li sono scordati quei due occhi nocciola che mi guardano! Mi sfiorò una ciocca di capelli, scostandomela dal viso e restammo immobili alcuni secondi. Un soffio d'aria frizzante ci avvolse ed un brivido leggero mi fece venire la pelle d'oca. Pensai volesse baciarmi. Invece si girò per incamminarsi, sapeva dove andare.
Quando arrivammo al mio portone la tensione era alle stelle. Io non riuscivo a stare ferma, lui si dimostrava più tranquillo ma nascondeva le mani nelle tasche dei jeans e gli occhi parlavano al suo posto.
“Ti offro ancora qualcosa da bere?” gli chiesi in un impulso.
“Volentieri” mi rispose con un sorriso.
Salimmo le scale in silenzio, nessuna parola avrebbe potuto esprimere le emozioni che ci stavano attraversando. Solamente il rumore disordinato dei passi sugli scalini e i respiri leggermente affannosi ci tennero compagnia fino alla porta del mio appartamento.
Non aprii nessuna bottiglia a casa, appena entrati mi schiacciò sulla parete e mi regalò il primo di tanti baci, il suo corpo caldo addosso al mio, il suo profumo nelle mie narici.
Era iniziata la nostra magica storia.
Quante emozioni! All'improvviso il mondo mi sembrava più grande e più colorato. Tutto quello che mi succedeva acquisiva una realtà maggiore, come se la concretezza del mondo dipendesse dalla mia percezione di esso. I miei sensi stavano sempre all'erta, pronti a cogliere significati e sfumature che sfuggivano alle altre persone. Notavo tutto: piccole variazioni nell'umore di chi mi stava intorno, se si erano aperti nuovi fiori sugli alberi della via, se l'azzurro del cielo aveva cambiato tonalità, se il profumo dell'aria aveva un accento diverso. Ovviamente di questa realtà aumentata Diego rappresentava il fulcro luminoso.
Insieme eravamo una fucina di idee sempre in movimento. Pur essendo attratti da cose diverse, nella condivisione trovavamo soluzioni, combinazioni e spiegazioni altrimenti impossibili. Trascorrevamo intere giornate senza vederci, ciascuno preso dal lavoro, dall'università o dagli impegni, ma quando ci riunivamo il tempo si dilatava e ci premetteva di rimetterci in pari. Quasi non dormivamo, sotto l'effetto dell'adrenalina che riempiva i nostri corpi.
Come due giovani spensierati, d'altra parte eravamo giovani, io 19 anni e lui 24, ci chiudevamo in casa col frigo stracolmo, gironzolavamo a vuoto per la città oppure restavamo su una panchina del parco solo per osservare il movimento del sole durante il giorno da quel punto esatto della Terra, spesso studiavamo assieme, io i miei tomi di filosofia, lui articoli giornalistici. In ogni caso ci lasciavamo accresciuti nei pensieri, nelle capacità e nella nostra relazione, che pareva inscindibile. Un anno passò senza ombre né dubbi, senza lasciare presagire quello che sarebbe successo.
Ormai la mia tazza di tè è vuota e i brividi di freddo mi chiedono di andare a cercarmi qualcosa di più pesante da indossare. Le prime stelle sbucano dal buio del cielo e la notte placida dovrebbe mettermi tranquillità e pace. Sopporto la temperatura, ostinata, e rimango sulla sdraio. Non ho la forza di spostarmi da dove sono, ondate di emozioni mi invadono, fluttuando senza tregua. La mia vita non è stata facile ma sono arrivata fino a qua da sola, mi ripeto. Ed ora ho un attività che mi regala soddisfazioni e mi lascia tempo libero per me stessa, ho un figlio meraviglioso che sta cercando la sua strada, forse sono riuscita a fare un buon lavoro come madre.
Tento, invano, di riportare la calma nella mia mente, purtroppo non si placa il tormento, che finisce per esaurire le mie energie. Non mi perdo nei ricordi molto spesso, anzi quasi mai, perché so quello che mi succede dopo: riaprire le vecchie ferite mi fa sanguinare ancora, mi sconvolge la tranquillità delle giornate e mi mette di umore fastidioso e irritabile. Solamente quando riporto tutto in uno spazio profondo e irraggiungibile, ben lontano dai miei pensieri e dalle mie emozioni, torna la pace. Il vero balsamo è il tempo, lentamente sparisce tutto, come avvolto dalla nebbia e nascosto pure a me stessa. Gradualmente rientro nella mia quotidianità, mi concentro sul presente e il passato torna in secondo piano, lo porto così lontano da me da sembrare il passato di qualcun altro.
Stasera sono ancora in mezzo a una burrasca emotiva, trascinata di qua e di là contro la mia volontà. Mi alzo dalla sdraio, la luna ancora non si è fatta vedere. Entro in cucina e chiudo bene la porta a vetri, obbligo il freddo a rimanere di fuori. Sento un estremo bisogno di riscaldarmi. Lascio spente le luci di casa e me ne vado direttamente a letto sotto il piumone. Chissà se riuscirò a dormire.